I Social sono sempre meno ospitali per contenuti, discussioni, confronti e scambi di opinioni. In una sola parola: Cultura.
Cosa vuol dire, però, produrre cultura all'interno di un social media? Se consideriamo il senso preciso dell’espressione rete, i “social” non nascono con Facebook, ma esistono da molto prima. E, in un certo modo, erano un driver di cultura e conoscenza.
Prima del 2008, prima dell’algoritmo e del pollice in su, esistevano delle community. Erano MySpace, erano le migliaia di forum che popolavano internet di ogni argomento, ed era così anche il primo Facebook, e twitter, anche se dedicato solo a delle nicchie. Ma cosa vuol dire quindi "produrre cultura" su un social network? Direi: occuparsi di argomenti con competenza, sobrietà e serenità. Soprattutto approfondimento.
Vuol dire divulgare, e in un certo modo imparare, crearsi una competenza. Vuol dire anche creare un ecosistema intorno ai nostri contenuti, come prima cosa. Servono persone che interagiscano non incontrandosi per caso, ma conoscendosi, creando un circolo virtuoso di scambio che generi valore per entrambi. Serve una rete, persone che si conoscono, e riconoscono, coltivando una reputazione. La giornalista del New York Times Virginia Heffernan, in un vecchio articolo, parlava di “Internet neighborhoods”: riferendosi ai forum, probabilmente lo strumento su cui la cultura è stata più valorizzata da quando esiste internet.
I forum erano i social network perfetti per i contenuti di qualità, perché erano costruiti in modo diametralmente opposto ai social network di oggi. Il forum era semplice, ma anche una rivelazione. Le voci erano provocatorie, nella maggior parte dei casi intelligenti e cariche di emozioni (ed emoticon). Ci si scambiava consigli pratici (relazioni, anche scientifiche) e soggetti a critiche (costruttive). Le amicizie dal web si materializzarono in luoghi tridimensionali come i bar o gli eventi dedicati. Sapevi di essere stato abbracciato su una bacheca quando il tuo nickname veniva reso tra doppie e triple parentesi, in questo modo: (((tu))). Era fondamentale la qualità della discussione, del contenuto. Ogni argomento aveva (ha, esistono ancora spazi di conversazione di questo tipo fortunatamente) una stanza dedicata. Bolle, community verticali.
I forum erano appunto, quartieri di Internet spontanei, turbolenti e spesso ispirati. Andare fuori argomento (praticamente la norma sui Social attuali era la massima onta). Ci si costruiva così una reputazione, che si misurava con delle stelline e un contatore di post. Quella che oggi chiameremmo "fare la gavetta".
Nel 2007 invece Paul Buchheit (già inventore di Gmail e sviluppatore di Google AdSense) lanciò FriendFeed che, ai miei occhi e di tanti in Italia, rappresentava la quadratura del cerchio. Un social network semplice, smart, che aggregava i tuoi feed e quelli di persone/blogger/testate che ti interessavano insieme alla possibilità di fare conversazione a più voci con altri utenti. Mi è sempre piaciuta la definizione di FriendFeed come un social di affinità. Una meraviglia! (con i suoi lati oscuri, ma non è questo il luogo!).
Tuttavia, nonostante tutta la loro importanza per i singoli utenti del Web, i forum erano quasi invisibili a chiunque fosse intenzionato a trarre profitto dal traffico Web, e quindi sono stati quasi cancellati dalla storia di Internet. Un avvincente articolo del 1997 di Katie Hafner su Wired racconta l'ascesa e il declino di The Well, una community venerata online iniziata nel 1985. Da allora gli storici hanno scritto scaffali pieni di libri sulla ricerca sul Web e sull'e-commerce, ma pochissimi sui forum.
Oggi è impossibile crearsi una reputazione, anzi, peggio: è inutile. Le interazioni premiate dagli algoritmi sono generalmente quelle all'esterno della nostra cerchia. Un post sbagliato, e la reputazione non esiste più come scudo: una shitstorm è in grado di cancellare anni di impegno e costruzione di una community. In più, l’impossibilità (ad esempio) su Instagram, di includere nei commenti, dei collegamenti, rende un commento ancora meno multimediale, quindi più difficile da arricchire con quelli che una volta si chiamavano “hyperlink” che costruivano la profondità necessaria ad ampliare la discussione.
Sono social fatti per l’auto-narrazione e la propria celebrazione non certo per il confronto. Le stories stesse, lo strumento di pubblicazione che va per la maggiore, che scompare dopo 24 ore, lo dimostra appieno. Viviamo un momento in cui il contenuto virale è estetico, è polemico, è divertente, ma difficilmente può essere culturale, perché richiede velocità, e funziona solo se non è appesantito dalla critica.
Esistono quindi delle alternative per produrre cultura sul web? I social rimangono ancora centrali per la comunicazione media? Non possiamo immaginare di rimanere senza piazze di scambio di opinione e valori, ma i temi importanti di questo millenio, meritano piattaforme di confronto che non si limitino al mi piace, non mi piace e una video recensione.
Iniziamo, buona lettura!
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In cuffia e in video 🎧
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Polaroid ⭐
Cosa mi porto a casa questa settimana. L’insegnamento, o comunque esperienza
Leggo e vedo sui social troppe banalità spacciate per grandi scoperte, eccessi, inferenze sbagliate, deduzioni campate sul nulla, complessi di superiorità e proliferare di buone intenzioni a buon mercato. Ho l'impressione che, in questo momento, per esserci e contare qualcosa bisogna comportarsi in un modo che, nella maggior parte dei casi non mi piace e non mi appartiene: spero di avere sempre questa lucidità e di continuare a fare quello che mi sembra giusto: la strada lunga e tortuosa. Non la scorciatoia che tanto mi irrita quando la vedo scegliere dagli altri.
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Aprila e buona lettura
A presto,
Alessandro
Ah, con che piacere ricordo l'epoca dei forum. Checché se ne dica oggi dei social network, la dipendenza da notifica esisteva già allora. Si era talmente presi dalle conversazioni con le community di appassionati come noi che non ci sj voleva mai staccare. Io però non credo che sui social non si possa fare cultura. Seguo molti canali divulgativi e non autoreferenziali - anche se purtroppo il personal branding tende ad avere la meglio in molte circostanze. Ma la trovo anche una cosa normale e anche legittima: siamo ritornati in un'epoca in cui la cultura può dare lavoro a molte persone, e se questa deve accentrarsi nell'immagine di un personaggio, tanto meglio.
Non voglio generalizzare, ma nemmeno pensare che quella sia sempre cultura in senso lato, ma "cultura del se". Più in generale alle volte è svilente sui social vedere che molti esistono solo in base alla caratteristica che più li definisce all’apparenza. Ma non riusciamo a farne a meno, perché in fondo è più facile coprire le proprie lacune identitarie con un unico grande telo piuttosto che affrontare i conflitti che ci fanno sentire sospesi. Mi sembra sempre tutto e comunque orientato ad approccio performativo legato alla visibilità che si può trarre da un certo approccio e contenuto, senza una ricerca reale della profondità.